Medicina vittoriana – ecco perché ci rende felici oggi
Medicina vittoriana – ecco perché ci rende felici oggi. Spesso ci piace guardare con nostalgia e un po’ di invidia la vita nell’800 (solo di alcuni ceti sociali!) per la fastosità degli abiti, la meraviglia delle ambientazioni, lo stile suggerito dai libri. le ragazze e le signore sognano incontri d’amore da favola, i signori indugiano sull’idea di gestire enormi tenute andando a cavallo, trascorrere a Londra soggiorni a base di serate focose e di emozionanti scommesse, magari seguendo boxe, gare d’ogni genere, guidando carrozze.
Medicina vittoriana, primo consiglio: non ammalatevi se c’è un medico pronto per curarvi
Tutto questo è magnifico, ma, come dico spesso, se volete viaggiare nel tempo, portatevi un ben fornito kit di medicinali e non lasciatevi toccare dai medici. I dottori avevano tanta buona volontà, ma se la cavavano meglio coi cadaveri che con i vivi, almeno fino all’arrivo delle prime nozioni di disinfezione, ma anche del principio di sperimentazione: molte delle cure erano tradizionali, funzionavano perchè si erano sempre usate, non perchè si era stati attenti all’incidenza di guarigioni o di peggioramento durante e dopo l’uso del “farmaco”.
Durante il primo drammatico periodo di Covid, le cure utilizzate in alcuni casi peggioravano il quadro clinico, ma si era talmente disperati che in mancanza d’altro quelle erano le cure migliori, in attesa di comprendere la malattia.
Questo era ciò che accadeva alla medicina vittoriana in toto su tutto ciò che riguardava il corpo umano.
Abbiamo parlato dei parti e delle statistiche: era più facile morire di setticemia durante un parto in ospedale, se ad intervenire era un medico, che nei casi in cui erano solo le ostetriche a seguire il travaglio o se i parti avvenivano in campagna: l’elemento discriminante erano i passaggi all’obitorio e le dissezioni di cadaveri, che avvenivano poco prima e che non venivano intervallate da alcuna disinfezione delle mani.
La medicina vittoriana e i quattro elementi: sembrava un fantasy, era un horror.
Molte pratiche, semplicemente, non avevano semplicemente un perché.
L’universale fiducia nei clisteri di… fumo, ad esempio. Ancora la mia generazione può dire d’aver scontato un pochino di purgatorio con clisteri con acqua e sapone, spesso di Marsiglia. Oggi ci sono giovani malati che a un certo punto capiscono l’antifona e fuggono quando la mamma o la zia mettono sul fornello una caffettiera bella grossa. Nell’800 le viscere viziose andavano di fumo di tabacco. Non si trattava di una cura per la stipsi, ma aveva altre funzioni, rinvigorenti, rivitalizzanti. Lungo le rive del Tamigi, per salvare la vita degli sventurati che avevano rischiato d’affogare, apparecchi salvavita per aiutarli a riprendere conoscenza erano stati allestiti lungo le rive: cannule e clisteri da caricare a fumo. Se non ti ripigli con un clisterino così…
Dal fumo all’acqua. Le forme di idroterapia erano varie e tutte pensate da una mente abbastanza contorta.
Un’idea era quella (molto simile alla dieta idropinica di oggi, senza però tenere conto che il paziente alla fine deve restare vivo) che riempiendo il malato d’acqua, i liquidi avrebbero spinto via il malanno, un po’ come quando per tirar fuori la schiuma da una bottiglia si riempie d’acqua. Geniale!
Nel frattempo, gli eredi intellettuali dei medici che fino a qualche decennio prima assicuravano che lavarsi troppo era male, che i bagni erano da dosare con parsimonia, nei manicomi sperimentavano altre cure con l’acqua. Se i pazienti erano troppo agitati… vi lascio indovinare lasciandovi una traccia: bisognava calmare i loro bollenti spiriti.
E se avete indovinato, che c’è di meglio di un bel bagno in acqua e ghiaccio, per ottenere il risultato? Anche per ore, i poveracci venivano lasciati in questi gelidi bagni, a volte fino a perdere conoscenza. Calma assicurata. Siamo ancora molto lontani, per fortuna dall’elettroshock e dalla lobotomia, ma gli ospiti dei manicomi venivano spesso legati per evitare che si facessero o facessero ad altri del male. L’intento era buono, ma spesso la gente restava legata per giorni, senza che nessuno controllasse l’effettivo stato mentale.
Il vero cuore della medicina nell’800 erano le cure somministrate a grandi e piccini, spesso a completa discrezione del medico per quanto riguardava dosi e componenti. Spesso nei film sentiamo dire “sto prendendo il tonico del dottor XXX”: era infatti una formula personalizzata, che però con molte probabilità conteneva arsenico, mercurio, o altre sostanze. Un po’ di laudano era immancabile.
Esistevano manuali per indicare i dosaggi dei vari principi attivi, ma uno dei capisaldi dei medici era quello di attaccare con vigore la malattia per liberare il paziente: febbre, debolezza, si curavano con i salassi, praticati con la lancetta apposita (così tanto usata da essere il simbolo della professione, nessun medico ne usciva mai senza, e così tanto da dare nome alla prima e più importante rivista medica, the Lancet), con un bisturi o con le sanguisughe. Si eliminava così il sangue di troppo. Poi con buoni purganti, un bell’emetico e tutta la malattia secondo logica doveva essere espulsa, insieme all’anima del paziente, in parecchi casi. Per far riprendere i debilitatissimi sopravvissuti, si prevedevano poi digiuni e brodini, vino e altri liquidi. Almeno c’era il vino, da assumere diluito e speziato.
Non si guarisce senza un po’ di veleno
Il rapporto con l’arsenico era per i medici e i malati dell’800 una fonte di gioia e dolore, così come per il mercurio. Talvolta gli avvelenamenti erano accidentali, in quanto questi due velenosi elementi erano presenti in modo ubiquitario nella vita quotidiana, talvolta era proprio la presenza nelle cure a peggiorare lo stato di salute. Tuttavia, nel caso della sifilide, malattia venerea subdola e mortale, l’arsenico si dimostrò l’unico a portare un piccolo aiuto nel prolungare la vita ai malati.
Riuscire a cercare rimedi nella fitoterapia e ricavarne più veleni che benefici è perfettamente in linea con l’epoca: ecco qui imperversare cocaina, soprattutto negli sciroppi per bambini, chinino (curava la febbre e la malaria) e digitale (in alte dosi: mortale, in piccole dosi, una cura per il cuore, tuttora in uso).
La medicina vittoriana si avvicina alla modernità
In mezzo a tutto questo guazzabuglio di cure e di disastri, di pazienti morti e malati di mente congelati, si faceva avanti la vera medicina, che cominciava a muoversi già dalla metà del secolo, ostacolata dalla tradizione, che si muoveva in tutt’altre vie, più filosofica che pratica.
Nel 1861, lo stesso anno in cui iniziò la guerra civile americana, Ignaz Semmel Weis pubblicò la sua ricerca sulla natura trasmissibile della febbre purperale: una rivoluzionaria teoria per cui non si trattava di qualcosa di misterioso che vagava nell’aria a uccidere i pazienti ma piccole invisibili creaturine che sit trasmettevano dal dottore alla madre e al bambini. i Germi. Era una teoria così assurda e strampalata che i colleghi, quei pochi che si degnarono di leggere almeno metà dell’articolo arrivati alla parola “invisibili” passarono la rivista alla moglie per avvolgere le uova. e poi! Lavarsi le mani poteva essere una soluzione a tutte quelle morti! solo pensare che un gesto così banale avrebbe salvato migliaia di vite rendeva la cosa di per sé improponibile. Era come sentirsi addosso il peso dell’omicidio di madri e figli.
Disinfettanti per uccidere i germi. Disinfezione del materiale usato negli interventi. Disinfezione dell’area in cui si operava. Possibile che bastasse così poco.
I medici avevano rigettato l’articolo, ma Weis aveva messo loro la pulce nell’orecchio. C’era solo una cosa da fare: provare e vedere cosa c’era di vero. Con Koch, Lister, Pasteur, il metodo sperimentale entrava in campo medico e portava la asepsi in sala operatoria, la buona pratica di disinfezione negli ambulatori e nella cura dei pazienti.
Il numero dei morti in ospedale cala drasticamente, soprattutto nei reparti maternità.
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