La Dama in Verde Capitolo Primo

1 – Elspeth

Il primo capitolo del romanzo La dama in Verde di Antonia Romagnoli disponibile su Amazon in ebook e cartaceo.

Londra, febbraio 1816

La stanza veniva mantenuta in penombra grazie a pesanti tendaggi color verde oliva, che filtravano la già scarsa luce di quella giornata, ancora stretta nella morsa del gelo invernale. Il fuoco che ardeva nel caminetto pareva non riuscire a riscaldare l’aria umida di un febbraio avaro di sole.

Dentro e fuori dalla camera da letto regnava incontrastato il freddo, tanto che la giovane donna, nell’avvicinarsi al baldacchino, anch’esso racchiuso da spessi tendaggi in velluto verde, non riuscì a impedirsi di rabbrividire, nonostante il pesante scialle di lana che portava sulle spalle.

L’anziana che giaceva nel letto, davanti a lei, pareva assopita fra le coperte finemente ricamate, la cui seta era così lucida da riflettere il baluginare del fuoco.

La faccia della donna sembrava già quella di un cadavere, sia per il pallore sia per la lunghezza spropositata del naso, sottile e aquilino. Ma la vecchia dama era tutt’altro che morta e lo dimostrò sobbalzando nel letto e aprendo due occhiacci arcigni che scrutarono rapidamente la stanza fino a inquadrare la nipote, che indugiava a pochi passi da lei, incerta.

Dal lenzuolo bordato in pizzo si sollevò, perentoria e scheletrica, una mano che le fece cenno di accostarsi e la ragazza ubbidì, recalcitrante.

«Sbrigati, Elizabeth!» ordinò la vecchia già con una nota d’impazienza nella voce.

Elspeth sorvolò sul perenne fastidio che le dava la storpiatura del proprio nome. Era da molti anni che la zia aveva deciso di modificarlo, che a lei piacesse o meno, per dimostrarle quanto fossero disprezzabili le sue origini scozzesi. E quanto fosse disprezzabile lei, la sventurata nipote che si era dovuta suo malgrado accollare.

«Eccomi, zia».

Un colpo di tosse, giusto per sottolineare la gravità della situazione, poi Mrs. Davenport, con una certa fatica, si sollevò un poco sui cuscini, indicando imperativa alla nipote come sistemarli per metterla comoda. Quando si sentì adeguatamente posizionata, emise un sospiro soddisfatto e lanciò alla giovane una seconda, gelida occhiata, che fu ricambiata da quest’ultima con signorile compostezza.

«Ti ho fatta venire qui per comunicarti una mia decisione in merito all’eredità. Come vedi, non sto affatto bene».

Elspeth non trovò nulla da replicare, dell’indisposizione della zia era perfettamente al corrente, dato che viveva nella sua stessa casa. Così com’era al corrente che, poche ore prima, il notaio era arrivato e ripartito dopo un colloquio con la signora.

la dama in verde capitolo primo

Nonostante l’argomento delicato, non fu invitata a sedersi e le toccò rimanere in piedi accanto al letto in attesa che la donna continuasse.

«Sto riflettendo da molto tempo sulla tua situazione, come immaginerai. Dipendi completamente dalla mia generosità, questo lo sai. Ora, come mia ospite, e in futuro, in base a quanto deciderò di lasciarti».

La giovane sapeva molto bene anche questo, perché da quando era arrivata in Inghilterra, nove anni prima, Mrs. Davenport non aveva fatto altro che ripeterglielo in ogni occasione.

Anche questa volta non replicò nulla, sapeva che la zia amava lasciarla in sospeso per ottenere sui suoi nervi un effetto più devastante, ma col tempo aveva imparato a non far trapelare emozioni, né positive né negative. Era la sua unica parente, così come lei lo era per l’anziana vedova, perciò si era imposta, soprattutto dopo lo scandalo, pazienza e sopportazione.

«Sono preoccupata per te, dopo quello che è accaduto», continuò la voce stridula della vecchia, resa più acuta dal tono tagliente che stava usando e che la nipote conosceva: era quello che serviva a introdurre le peggiori stoccate.

«So molto bene quanto ti sono debitrice e quanto ti preoccupi per me» replicò Elspeth con tono piatto, domandandosi dove volesse andare a parare la sua aguzzina. Perché Mrs. Davenport, in quegli anni, era stata poco più di quello, per lei. E se la conosceva abbastanza, quella premessa falsamente amorevole preludeva a qualche nuovo tormento.

«Bene. È giusto che i giovani capiscano il significato della gratitudine» commentò l’altra. «Giovani, poi… non così tanto nel tuo caso».

«Ho ventun anni, zia».

«Alla tua età ero già sposata e adeguatamente sistemata, e lo saresti anche tu, se non avessi buttato via le buone occasioni per gettarti fra le braccia di quel… quel…» un accesso di tosse interruppe la frase, più abbaiata che pronunciata.

La ragazza si dovette imporre uno sforzo per avvicinarsi al letto e aiutare la zia a mettersi seduta per respirare meglio, ma appena ebbe ottenuto il risultato sperato venne allontanata in malo modo da quest’ultima, come se il contatto con la nipote le facesse ribrezzo. Se Mrs. Davenport in passato l’aveva disprezzata, quel suo passo falso in società l’aveva resa del tutto invisa agli occhi della parente. Era bastata una piccola, innocente ingenuità per segnare per sempre il suo futuro e mettere in mano alla zia l’arma per distruggerla.

«Perciò,» riprese quest’ultima, come se non fosse stata sul punto di soffocare, «ho riflettuto a lungo su come aiutarti a trovare la tua strada. Come vedi, non mi resta più molto tempo e oggi mi sono decisa a mettere per iscritto i miei desideri per quando non potrò più…» si schiarì la voce, per non finire la frase. «Ebbene, il tuo comportamento mi ha sempre dato molti grattacapi. Il tuo temperamento mi preoccupa e non potrei perdonarmi se tutti gli averi dei Davenport finissero dilapidati per mano di una sventata ragazza e di un bellimbusto scriteriato!».

Elspeth fece appello di nuovo a tutto il suo autocontrollo, ma un nodo le stringeva la gola. Aveva subito lei un torto, eppure da quasi tre anni, da quando era tornata dal collegio, veniva trattata come se avesse volutamente perpetrato un grave affronto alla zia e alla sua famiglia, gli illustri, alteri Davenport, con i quali, non si mancava mai di ricordarle, lei non aveva alcun legame diretto.

Tre anni prima, sua zia era ancora solita frequentare la società, ricevendo regolarmente e partecipando a sporadici e selezionati eventi: lei, come nipote a carico, era diventata una specie di dama di compagnia, anche se in realtà si trattava più di un capro espiatorio dei malumori dell’anziana. Quello era stato il suo debutto, la sua occasione di trovare marito; pur se trattata con distacco dalla zia, Elspeth era risaputo essere l’unica erede di una fortuna universalmente riconosciuta come notevole e qualche giovanotto ogni tanto aveva dimostrato verso di lei un blando interesse, sempre scoraggiato da Mrs. Davenport, insoddisfatta dei partiti o dei patrimoni.

Alfred Tennon, ufficiale di fanteria, con la sua scintillante divisa rossa e il ciuffo bruno sapientemente sostenuto dalla cera fino a sembrare spettinato dal vento, aveva capito subito che tipo di ragazza fosse l’indifesa fanciulla: un pulcino spaventato fra le grinfie della rapace zia. Le aveva mostrato amicizia e comprensione, rubando fugaci conversazioni in più di un’occasione, poi le aveva fatto intendere di essere interessato a lei. Le aveva scritto d’amore, di ardore, di passione. Aveva elogiato la sua bellezza interiore ed esteriore e lodato il suo carattere mite e paziente.

In breve, l’aveva indotta ad accettare un incontro segreto e lei era stata così sciocca da farsi abbindolare.

«Non ci saranno altri soldatini che avanzeranno pretese su di te in futuro, ma questo lo sai già. Il mio cruccio, in questi ultimi tempi, è stato uno solo: come impedirti di compiere altri errori di valutazione così gravi? E soprattutto, come evitare che il patrimonio dei Davenport finisca nelle mani sbagliate?»

Elspeth cercò di non far trasparire alcuna emozione dal volto, mentre dalle labbra le usciva la risposta più ovvia. «Diseredandomi».

La vecchia sogghignò. «Ci ho pensato. Ma sono ancora timorata di Dio e non potrei fare un torto simile alla figlia della mia unica sorella. Però posso metterti nelle condizioni di compiere una scelta oculata. Ho ricevuto proposte da un paio di giovanotti di mio gradimento, nelle ultime settimane. Nonostante tutto, sembra che il tuo bel visino sappia ingannare gli uomini».

Elspeth spalancò gli occhi, meravigliata. Da quando era accaduto l’affaire Alfred Tennon, aveva vissuto quasi da reclusa, anche a causa del progressivo peggioramento di condizioni e di umore della zia. Cercò di passare in rassegna gli scapoli che aveva potuto incontrare negli ultimi mesi e la mente si rifiutò di dare un volto alla parola.

«Non riesco proprio a immaginare chi».

«Sir Cedric Lockwood e Mr. Morris».

Elspeth sobbalzò quasi per la sorpresa: «Sir Cedric?».

Mrs. Davenport sollevò le spalle. «Ha bisogno di una madre per quei quattro demoni, non sarò certo io a impedirgli di trovarla. Ha una buona rendita, possedimenti solidi e un’età adeguata a non sperperare i miei soldi».

«Non puoi essere seria, zia!» esclamò la giovane. «Potrebbe essere mio padre!».

«Sciocchezze, il figlio maggiore ha solo diciassette anni».

Il vecchio baronetto aveva già sepolto due mogli, entrambe molto più giovani di lui, ed era uno degli amici intimi della anziana vedova Davenport; era spesso ospite da loro e ogni volta si lamentava copiosamente dei suoi terribili figli, uno dei quali era arrivato quasi a dare fuoco all’istitutrice con brandy e sigaro paterno.

La ragazza scosse vigorosamente il capo.

Mr. Morris era l’altra opzione, e Elspeth cercò di capire chi fosse. Possibile che…

«Mr. Morris ti aggrada di più, quindi. La mia cara amica Anne ne sarà felice».

Colin Morris, unico rampollo di madre vedova. Volto butterato dal vaiolo contratto da bambino, mani piccole, sottili, viscide e perennemente gelide. Aveva sentito la madre dichiarare in confidenza all’amica di essere alla ricerca per suo figlio di una donna che sopportasse senza troppe storie certe preferenze che il giovane aveva ormai apertamente manifestato. Elspeth non aveva capito molto bene di che preferenze si trattasse, ma non aveva alcuna voglia di scoprirlo.

«Mi chiedo se queste generose offerte siano arrivate spontaneamente o piuttosto facilitate dal vostro intervento» considerò la ragazza stringendo, dietro alla schiena i pugni fino a sentire le unghie pungerle la carne. Doveva dominarsi, ma era sempre più faticoso.

La zia socchiuse gli occhietti già piccoli, le pupille sembravano due capocchie di spillo. «Sono stata io a offrire la tua mano. Se non fossi stata così male te ne avrei parlato prima. Non credevo che le mie piccole spinte avrebbero ottenuto successo con entrambi gli interessati, visto che la tua reputazione ormai è rovinata. Ma nemmeno loro possono andare molto per il sottile. Non ti resta che scegliere.» Un colpo di tosse. «Non c’è bisogno che mi ringrazi, è mio dovere provvedere a te».

Elspeth abbassò lo sguardo per non far trapelare il tumulto che animava i suoi pensieri.

Da quando era stata accolta dalla zia, aveva subito ogni tipo di sopruso e di umiliazione, come se quella donna si divertisse a distruggere con metodo ogni sua sicurezza, ogni desiderio, ogni tratto del suo carattere. Aveva subito ogni giorno un incessante lavoro di lima atto a renderla nient’altro che una bambola obbediente.

Rimase per un lungo istante a osservare la zia, distesa sul letto, a un passo dalla morte ma ancora ferma nel suo intento di farle tutto il male possibile, rispettando le apparenze in modo diabolico.

Era stata lei a intercettare e rendere pubblico lo scambio di biglietti e lettere, prima che Elspeth si incontrasse col giovane ufficiale, trovando così la scusa per non portarla più in società e risparmiarsi le spese di un vero debutto. Da allora, era stata in balia del dispotismo di una donna intenzionata a riversare su di lei l’odio per la sorella minore, rea di un matrimonio imprudente e di una morte prematura.

Ora, mentre la zia la osservava gongolante, le balenò il pensiero che tutta quella faccenda fosse stata architettata da lei. Tennon era sparito immediatamente, senza una parola, e lei era stata severamente punita per la tresca “inammissibile in una casa rispettabile come quella”. Era possibile che quella donna avesse orchestrato tutto? Era riuscita ad avere il carteggio così facilmente, e proprio al momento giusto, prima che Elspeth finisse per compromettersi del tutto, uscendo a incontrare lo spasimante…

Fino a quel momento Elspeth si era attribuita ogni colpa, ma ora, si trovò improvvisamente ad assolversi dalle proprie mancanze. Se aveva sbagliato, in ogni caso, vi era stata indotta dal trattamento ricevuto in quella dimora, dalla mancanza d’affetto e dalla solitudine. Se non era stata perdonata, non era per la gravità dell’errore ma per il cuore incapace d’amore della parente.

La zia dovette notare la nuova luce nel suo sguardo, che non corrispondeva all’avvilimento che si era aspettata.

«Ho pensato che fosse mio preciso dovere aiutarti a scegliere nel modo più saggio. Questa volta non ci saranno incomprensioni: ho sistemato il testamento in modo che tu possa agire finalmente in modo giudizioso. Se al momento della mia dipartita sarai sposata, avrai per intero il mio patrimonio, se invece per allora sarai ancora nubile… dovrai renderti indipendente in altro modo».

Elspeth rimase per un attimo impietrita, poi sentì il proprio viso piegarsi in un sorriso divertito, con sommo disappunto della zia. Si avvicinò al letto.

«Quindi, io avrò una dote solo in caso mi sposi, prima della tua morte, con uno dei pretendenti selezionati da te. In alternativa, preferisci privarmi di ogni mezzo».

«Non proprio ogni mezzo. Ma avrai solo quello che si può aspettare una della tua… estrazione».

Elspeth era arrivata al limite della sopportazione e qualcosa in lei scattò, un fiume in piena la travolse e ruppe gli argini della sua buona educazione, della sua logica, della sua pazienza, e scoppiò in una risata fragorosa, irrefrenabile, che fece sobbalzare la zia.

Mrs. Davenport le ordinò di smetterla, dapprima con stupore, poi con sempre maggior perentorietà, infine con un filo di paura, ma Elspeth si fermò solo quando cominciarono a dolerle i muscoli.

«Sei impazzita, ragazza?»

«Forse, zia Davenport. Ma sai che ti dico? Gun itheadh an cat thu agus gun itheadh an diabhal an cat![1]».

«Ti ho detto mille volte di non parlarmi in quella lingua!» la redarguì Mrs. Davenport, ma Elspeth aveva volutamente usato il gaelico per irritarla. Sempre sorridendo sardonica, proseguì senza curarsi di tradurre i propri insulti. «Je pourrais vous insulter en français aussi et vous ne comprendriez pas la différence[2]. Devo ringraziarti per gli anni di collegio che mi hai permesso di fare… pur di non avermi fra i piedi. Come tu stessa hai detto, posso provvedere da sola a me stessa. Già da questo momento!».

Col sangue che le ribolliva al punto di tremare, lasciò la stanza sbattendo la porta e quasi in sogno corse nella propria stanza, sotto gli occhi esterrefatti della servitù; cacciò in una borsa pochi effetti personali, si preparò ad uscire cercando di assumere un aspetto meno invasato e si apprestò a lasciare la casa in cui aveva sofferto più che in ogni altro luogo.

La vecchia governante, forse informata da una delle cameriere, la raggiunse quando era già nell’atrio.

«Dove andate?».

La giovane sorrise tristemente all’unica persona che le aveva dimostrato, in quegli anni, un minimo di comprensione.

«Devo andarmene, Mrs. Jones. Questa volta abbiamo superato il limite, tutte e due. Non vi è più possibilità di riconciliazione. Se ve lo permetterà, mandatemi le mie cose all’indirizzo che vi farò avere… appena ne avrò idea io stessa».

La donna diede in un’esclamazione piena di apprensione. Una gentildonna che lasciava la propria casa, senza una meta, senza protezione, senza amicizia alcuna, non poteva essere destinata a nulla di buono.

Elspeth prese un lungo respiro. «Ho la mia istruzione e posso rivolgermi al collegio per signorine di Miss Moore, sono certa che mi aiuteranno a trovare una sistemazione».

La governante arrossì e parve molto imbarazzata. «Miss Elizabeth, permettetemi…» e si trasse dalla tasca un fagottino tintinnante. Elspeth capì che si trattava di soldi e fece per rifiutare, ma lei insistette. In tutta quella fretta, la ragazza non si era neppure posta il problema di come arrivare nel Surrey, mancando di mezzi propri. Per la prima volta da quando aveva lasciato che la rabbia la sopraffacesse, tentennò, rendendosi conto di essere stata davvero troppo precipitosa.

Ma ormai era fatta. Con imbarazzo di entrambe, lasciò che il denaro scivolasse nella sua mano e poco dopo si trovò in strada, sotto a una pioggerella fine e fastidiosa, che sembrava quasi restare in sospeso nell’aria, tanto era sottile.

I marciapiedi, resi lucidi dall’acqua, riflettevano a tratti gli alti ed eleganti palazzi della via, quasi come se una seconda città scorresse sotto ai piedi dei passanti, identica e rovesciata. Elspeth si lasciò per un breve attimo sopraffare dalla bellezza di quella malinconica immagine, che le sembrava corrispondere molto da vicino al proprio sentire. Anche il suo mondo era stato rovesciato e forse lei stessa era sperduta da tempo, da anni, in un luogo di cui condivideva solo i passi.

Ma ora si sarebbe ritrovata, a qualunque costo. O forse, il vero costo lo aveva pagato fino ad allora, accettando i maltrattamenti che aveva ricevuto.

Gli stivaletti di pelle si mossero rapidi sul suolo lustro, mentre si chiedeva, con una certa apprensione, dove andare e cosa fare. Una donna da sola, a piedi. Avrebbe dovuto cercare una vettura di piazza per raggiungere la stazione della diligenza: nessuna signorina per bene avrebbe fatto una cosa simile, ma non aveva più molta importanza, visto che non c’era più alcuna reputazione da difendere. Era fuori dai giochi e questo le provocava a ondate emozioni contrastanti: paura, senso di libertà, euforia, poi di nuovo terrore. Non era mai stata così tanto in balia di se stessa, nemmeno quando, nove anni prima, accompagnata da una conoscente di sua madre, aveva lasciato la Scozia per andare in Inghilterra, la patria che non aveva mai riconosciuto come sua.

Sua madre, infatti, aveva rinunciato a tutto, famiglia, amici, casa, per seguire un giovane, promettente pittore scozzese conosciuto in occasione di un ritratto di famiglia. Finché egli era vissuto, la loro vita era stata un’avventura, ma una febbre maligna le aveva in poco tempo strappato prima lui e poi la mamma, che aveva avuto solo il tempo di scrivere alla sorella per affidarle la figlia ancora bambina, rimasta senza nulla e nessuno.

Per Elspeth, vissuta libera e circondata da affetto, era stato un duro colpo passare sotto la tutela della zia, intransigente, orgogliosa e desiderosa di rivalersi su di lei per i torti del passato.

La maggiore delle sorelle Blackmore, per colpa di quella fuga d’amore, aveva rischiato di perdere l’ottimo partito che si stava faticosamente conquistando, il ricchissimo Mr. Davenport. Poi, con un colpo di genio e qualche ricerca araldica, aveva scoperto che il nome del pittore, Mackay, apparteneva a un’antica casata nobiliare, legata al baronato Reay, e questo, insieme a qualche coloritura, menzogna e occultamento, era bastato per salvare le apparenze, tranquillizzare il facoltoso fidanzato e diventare la sua augusta moglie.

La vedova Davenport non aveva mai celato quanto occuparsi di Elspeth le fosse sgradito, tuttavia aveva costruito un castello di bugie sulla famiglia Mackay e rifiutare di offrire una casa alla nipote orfana sarebbe stato compromettente, per cui Elspeth era stata accolta e subito spedita in collegio, fino a quando era stato possibile lasciarvela. Poi, mentre fra le mura di casa si susseguivano angherie, l’anziana gentildonna era stata costretta a portarla in società, facendo costantemente pesare quanto le costasse lo sforzo e manifestando ad amici e conoscenti le proprie pessime opinioni su di lei.

Persa in quei dolorosi ricordi, Elspeth ci mise un po’ per rendersi conto degli sguardi curiosi dei passanti che incrociava. Forse qualcuno la riconosceva? Quanto ci avrebbero messo gli “amici” della zia a far partire i pettegolezzi?

In qualche modo, ne era certa, la moribonda sarebbe riuscita comunque ad addossarle ogni colpa, magari facendo intendere a tutti che la ragazza avesse lasciato tutto per un nuovo, sconveniente innamorato. O peggio, che si fosse allontanata per non assistere l’anziana zia per puro egoismo. Mrs. Davenport era sempre stata brava con le parole, ancora di più con le menzogne.

Elspeth, i cui nervi cominciavano a cedere passo dopo passo, avvertì sulle spalle, come un macigno, il peso della propria azione, ma soprattutto la solitudine, quel maledetto mostro che ogni tanto l’aggrediva per sbranarle le viscere e che ora stava pasteggiando, vorace, a sue spese.

In quella via, con la luce del giorno che gradatamente si affievoliva, la ragazza ebbe l’impressione di sprofondare, mentre un nodo le stringeva inesorabile la gola.

Giunse in New Bond Street, trafficata e rumorosa, dove quasi subito rischiò di essere ribaltata a terra da un passante poco attento

Senza scusarsi, l’uomo proseguì per la sua strada, lasciandola barcollante sul ciglio del marciapiede, con la borsa che rendeva ancor più precario il suo equilibrio. Furono due indignate signore che, raggiungendola alle spalle, la sorressero, borbottando qualcosa sulla maleducazione di certi individui.

Elspeth si voltò per ringraziare le soccorritrici e si trovò di fronte una signorina elegante e biondissima, accompagnata da una donna più anziana, alta e arcigna, molto meno alla moda. Dapprima il volto della più giovane le risultò familiare, poi, a una seconda occhiata, la riconobbe e fu riconosciuta.

«Elizabeth!» esclamò ridendo Honoria Woodward, stringendole le spalle con trasporto. «Oh, Mrs. Wells, posso presentarvi Miss Mackay, mia carissima amica?».

Le due donne chinarono il capo in segno di saluto, mentre Honoria tentava di spiegare al suo chaperon chi fosse quella carissima amica, di cui con molta probabilità non aveva mai fatto il nome negli ultimi tre anni.

Quante ne avevano combinate insieme! Si ricordava, Elizabeth? erano state così unite, in collegio!

Elspeth avrebbe voluto trovarsi a miglia di distanza. Ricordava benissimo la vita in collegio e la sua amicizia con Honoria, ma per lei non era certo il momento più favorevole per mettersi a rivangare il passato in mezzo a una strada, né riusciva a condividere il buon umore della fanciulla, che pareva, invece, estasiata dall’incontro.

«Dobbiamo prendere un tè insieme! Subito!» decretò Honoria, prendendola a braccetto con aria risoluta. «Tanto più che Mrs. Wells deve sbrigare ancora diverse commissioni e io sono stanchissima. L’aspetteremo da Gunter’s, non è lontano da qui».

L’accompagnatrice di Honoria non batté ciglio e si congedò, lasciando che le due ragazze proseguissero da sole lungo la via; Elspeth comprese che la signora, presso Honoria, aveva un ruolo subalterno quanto lei con la zia e per un attimo le lanciò un’occhiata carica di comprensione, mentre si allontanava con l’amica, tutta intenta a parlare a raffica.

Non che Elspeth capisse bene ciò che l’altra le diceva, presa com’era dalle proprie preoccupazioni. I tentativi di liberarsi dalla tenace presa della giovane dama furono del tutto inutili, come vane le sue proteste riguardo a impegni preesistenti che richiedevano la loro separazione immediata.

«Sciocchezze!» la liquidò Honoria, quando con somma soddisfazione l’ebbe fatta accomodare nell’affollata sala da tè, a un tavolino che pareva essere stato tenuto libero apposta per lei.

«Chiunque ti aspetti, ti perdonerà: mi devi da tre anni una visita che non ho mai ricevuto!».

Elspeth lo sapeva, e se ne vergognava moltissimo, ma la zia le aveva vietato ogni contatto con le amiche del collegio, costringendola alle sole frequentazioni di suo interesse. Alfred Tennon era stato un increscioso incidente. O forse, no…

«Mi dispiace, Honoria» replicò, sincera. Di quante cose aveva dispiacere, in quel triste pomeriggio piovoso? Tante, troppe. Tutta la sua vita le dispiaceva.

Inaspettatamente Honoria le prese una mano, abbandonata sul tavolino. Sollevando lo sguardo, Elspeth incontrò due occhi azzurri da bambola che la fissavano carichi di apprensione.

«Qualcosa non va, vero?» le domandò.

Elspeth sorrise con amarezza: «Nulla in cui tu possa aiutarmi».

Una cosa, in effetti, aveva dimenticato di Honoria: non accettava mai i rifiuti, di nessun genere. Quella risposta vaga fu sufficiente a generare in lei la determinazione non solo a scoprire, ma a risolvere interamente i problemi dell’amica.

Fra un sorso di tè e un pasticcino, che Elspeth fu costretta a infilarsi in bocca “perché era troppo pallida” si trovò a raccontare il motivo dei suoi dispiaceri.

Honoria era implacabile e non ci fu particolare che non volle indagare, costringendo la povera amica ad abbandonare ogni reticenza dovuta al suo carattere schivo e alla sua educazione.

Alla terza teiera bollente, Elspeth fu obbligata a entrare in particolari che non avrebbe mai osato confidare a nessun’altra.

«Dunque rischi di essere diseredata se non sposi uno dei due» riassunse Honoria, quando si ritenne soddisfatta dalle informazioni. «E i tuoi pretendenti sono uno peggio dell’altro».

«Non si tratta di loro, ma dell’influenza che Mrs. Davenport ha avuto e ha su di loro. Io…».

Come spiegare? Come spiegare quanto quella donna fosse in grado di piegare la gente, di manipolarla?

Honoria annuì, con una buffa espressione di comprensione. «Sceglierei il vecchio, se fossi in te. C’è speranza che schiatti presto e i suoi orribili figli non costituiranno un problema: fra Eton, Oxford e Gran Tour potresti non vederli nemmeno».

«Honoria!» esclamò Elspeth, indecisa se essere scandalizzata o divertita. Si era quasi dimenticata quell’aspetto della sua personalità: tanto vulcanica, quanto calcolatrice.

La giovane gentildonna rise di gusto. «Ma il vero ostacolo non sarebbero mai i ragazzini. Tua zia, da quanto mi hai detto, ha un grande ascendente su questo signore. Giurerei che finiresti male, fra le grinfie di questi due. La tua cara zia si è impegnata tanto per rovinarti la vita» considerò, scuotendo i riccioli chiarissimi. Ancora una volta, la sua perspicacia colpì Elspeth, quasi quanto l’impetuosità delle sue decisioni. «Perciò, credo che oggi tu abbia incontrato la tua unica vera fortuna. Verrai a stare da me. Immediatamente».

Elspeth per poco non si fece andare di traverso il tè.

«Mia madre sarà felice di conoscerti. Eri l’unica di cui parlavo nelle mie lettere, si è stupita del nostro allontanamento. Sono così felice di averti ritrovata, Elizabeth! Anche se il frangente non è dei migliori».

«Non fu una mia scelta tagliare i rapporti» mormorò Elspeth, arrossendo. «Mia zia aveva chiesto di essere informata delle mie amicizie e dei miei progressi scolastici. Aveva dato ordine di scoraggiare ogni legame con altre ragazze, con la scusa di temere una diminuzione del mio rendimento».

Honoria aprì la bocca, poi la richiuse, per qualche attimo incapace di replicare.

«E… il mio nome non è Elizabeth, ma Elspeth. Sono solo la figlia di un pittore scozzese e di una donna fuggita di casa. Così lontana dalla parentela col Barone di Reay da non averne mai sentito parlare se non da mia zia».

A quel punto Honoria emise un sospiro. «Be’, mia cara, se può esserti di qualche consolazione, tua zia non è l’unica che vive in un mondo di bugie. Io sto per sposarmi con un uomo che non conosco, dato che mio padre morendo ci ha lasciate quasi sul lastrico… ma nessuno lo sa!» sorrise maliziosa. «E ora, mia carissima scozzese, accetti il mio invito oppure hai idee migliori? Mentiremo a mia madre, naturalmente!»

[1] “Possa il gatto mangiarti e possa il diavolo mangiare il gatto!”, insulto in gaelico scozzese.

 

[2] “Potrei insultarvi anche in francese e non capireste la differenza”, francese.

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