Memorie

10 dicembre 2015

Il 10 dicembre è un giorno particolare. È un giorno di memorie, un giorno di malinconie.

Il 10 dicembre è l’anniversario della morte di mia madre, e con questo sono già ventinove anni: un’infinità di tempo, quasi tutta la vita trascorsa senza di lei.

Ero molto indecisa su cosa raccontare in questo post su di lei. L’ho scritto e cancellato diverse volte, finendo sempre con il mettere insieme uno di quei testi depressiv-suicidanti che oltretutto non sono manco belli da leggere.

Bando alle ciance, ho deciso che come sempre la vita è già abbastanza triste di suo e che quando si scrive è meglio far sorridere che piangere.

Perciò, oggi vorrei che sorrideste con me dei miei ricordi, perché questo è il modo migliore di celebrare lei.

Chi era mia madre? Mia madre era una risata un po’ stonata. Era il ticchettio dei tacchi alti sul marmo del corridoio, era pura magia, come certi personaggi della Disney. Ecco, poteva trasformarsi da Biancaneve in Crudelia in un baleno.

Per raccontare lei mi ci vorrebbero più dei tredici anni che abbiamo condiviso, perché era una creatura del tutto unica.

 

La cultura, per mamma, era una passione e una missione. Tanto per cominciare, insegnava latino. E già così un indizio, per capire com’era la mia vita, ve l’ho dato.

Quando alle elementari la mia prima interrogazione sui verbi andò male, la prese sul personale. Poteva la figlia di una laureata in lettere e insegnante di latino non sapere i verbi? Se non lo avete capito, la risposta è no.  Infatti, dopo quel pomeriggio infernale trascorso con lei a ripeterli non ho più (dico più) dovuto studiare un verbo. Non alle medie, non al liceo. Si chiama, se non lo sapete, formazione permanente. Per me ha l’aspetto furioso di mamma che mi invita a ripetere di nuovo l’indicativo trapassato remoto del verbo concordare.

Quando mamma entrava in modalità insegnante ON c’era da aver paura.  Confermato dalle sue ex alunne che nel corso della vita ho ritrovato. Aveva un gusto sadico nel decidere chi interrogare: faceva passare l’indice sul registro, su e giù, osservando la reazione delle allieve. Quando trovava la sfumatura giusta di terrore sul viso, la scelta era fatta.

A scuola si presentava con tacchi vertiginosi e pelliccia. I tacchi servivano perché era bassina, la pelliccia… credo servisse per incutere maggior soggezione alle ragazze. Ci si avvolgeva come in un manto e sogguardava le studentesse da sopra i colli come se lei stessa fosse una belva in agguato. Me la immagino e rido ancora adesso, pensando al clima di quelle classi.

Modalità insegnante ON era comunque sempre pericolosa, a scuola e a casa.

In prima elementare la maestra ci rifilò i pensierini. Scrissi “La mia mamma è giovanile”.

Si scatenò Armageddon. Vi chiedete cosa ci può essere di così terribile… il giovanile, amici miei.

Mamma non mandò giù il giovanile, perché mi spiegò, si dice “giovanile” di persona non più giovane che però mantiene un aspetto “da giovane”.  Lei era giovane, non giovanile, e io dovevo correggere  il testo.

A me la frase “la mia mamma è giovane” non piaceva: giovanile aveva un suono migliore, più poetico. No, no e no: quello che avevo scritto era il mio pensierino.

Lei insistette, litigammo. Io ero irremovibile, lei pure. Uno scontro di titani, che alla fine vide arrivare il mio quadernetto a scuola con “la mia mamma è giovane” e me col muso lungo.

Comunque, era giusto il mio giovanile, perché mamma giovanissima non era e tutto il suo puntiglio era solo questione di orgoglio, mica di semantica. E con questo vi dimostro che con mia mamma potrei litigarci ancora anche oggi, se fosse viva e riprendessimo l’argomento.

L’esperienza mi è stata molto utile, perché comunque ho imparato a non discutere mai troppo con gli editor.

 

La modalità mamma ON era molto più divertente. Si litigava lo stesso per tutto, ma la mamma era un vulcano e non si poteva arginare in nessuna sua manifestazione.

Dava la voce alla mia bambola, per esempio. Ed erano liti pure col cicciobello, perché voleva decidere i giochi al posto mio.

Ogni tanto, per avere tregua, pigliavo la bambola e la mettevo a letto malata. Un po’ perché era l’epoca di Candy Candy e andava di moda giocare all’infermiera, un po’ per mettere zitte lei e mamma.

La mia infanzia è stata tutta così. Arrivava mamma e tutto si animava, si colorava, diventava speciale. In realtà, magica era lei e sapeva portare la magia dappertutto. Per la strada, quando giocavamo a immaginare le vie fatte d’acqua, e Piacenza diventava ai miei occhi una Venezia incantata, o quando stirava e lo sgabuzzino diventava la nostra astronave, che lei guidava col ferro da stiro mentre io vivevo incredibili avventure fra gli spazi.

Mamma era la magia che permeava la mia infanzia e la mia vita.

E ora, il mio post finisce.  Perché non ho voglia di raccontare quello che è venuto dopo. Non ho voglia di ricordare quel 10 dicembre piovoso e freddo che si è portato via il colore, la gioia e la magia dalla mia vita.

Ci sono storie senza lieto fine. Questa però, un lieto fine lo vuole.

E allora, vi racconterò di quei giorni in cui la mia mamma era giovane e si chiudeva in soffitta ad ascoltare i dischi per ballare di nascosto, di quando mi regalava libri e  di quando leggeva ad alta voce Don Camillo. Vi racconterò di quando scriveva storie meravigliose, o lavorava all’uncinetto seduta in salotto.  Vi racconterò del nostro presepe e delle nostre casette dipinte, delle risate, delle liti, dei sorrisi e delle carezze che non ho mai dimenticato. Vi racconterò di quando, giorno dopo giorno, mi ha insegnato a creare da sola la mia magia.

Allora non lo sapevo, ma è stato così.

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