#grandiautori: Vanity Fair – La fiera delle vanità

vanity fair - la fiera delle vanità

Vanity Fair – La Fiera delle Vanità

La fiera delle vanità è un romanzo di William Makepeace Thackeray (Calcutta, 18 luglio 1811 – Londra, 24 dicembre 1863), apparso prima in 20 puntate mensili tra il 1847 e il 1848, poi pubblicato come opera unica nel 1848.

Si tratta di un romanzo corale, nel quale si intrecciano i destini dei vari protagonisti negli anni della Reggenza inglese, a partire da “una splendida mattina di giugno, secondo decennio del nostro secolo”, come lo stesso autore indica nell’incipit del romanzo, passando attraverso il dramma delle battaglie contro Napoleone dopo il suo ritorno dall’Elba (Quatre Bras, Waterloo, il 15 giugno del 1815).

Un arco temporale di una decina d’anni, nei quali due figure femminili spiccano come protagoniste di questa fiera: Becky Sharp, figlia d’un pittore senza altra dote che il proprio cervello, e Amelia Sedley, dolce e ingenua fanciulla di buona famiglia.

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La fiera delle vanità

Ma che significa questo titolo? Questo lo spiega Thackeray, sia nell’introdurre la sua opera sia intervenendo all’interno del testo colloquiando col lettore.

La fiera è un luogo chiassoso, affollato, in cui i comportamenti della gente si liberano anche di certi pudori, mentre ci si lascia trascinare dalla corrente degli eventi e delle possibilità.

Un luogo di occasioni, ma la cui accezione negativa balza subito all’occhio.

L’autore ci mette subito in guardia: non è un luogo morale e nemmeno tanto allegro.

È un mondo ben lontano dalle case di campagna di Jane Austen, quelle intorno alle quali ruota il piccolo, pulito mondo di balli, di incontri, passeggiate dei romanzi più amati della Reggenza.

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Un’illustrazione d’epoca

Diverso lo scenario: una Londra in pieno fermento politico e sociale, nel quale le classi si incontrano e si scontrano. La piccola Sharp, arrampicatrice sociale, rappresenta il gradino più basso. Tutti gli altri personaggi, per lei sono altrettanti gradini da scalare.

Questa però non è una fiera qualsiasi: è la fiera delle vanità. E con questo termine, abbiamo già davanti il quadro tristemente fallimentare dei nostri protagonisti.

Tutto è vanità, dice il Qoelet,

Quale utilità ricava l’uomo da tutto l’affanno

per cui fatica sotto il sole?

E tutti gli affanni che costituiscono le vicende di questo libro non sono che vane corse alla ricerca di qualcosa che in alcuni casi è inafferrabile, in altri è inesistente. Il che è lo stesso, in fin dei conti.

La corsa al miglioramento sociale di Becky e il grande amore di Amelia sono altrettanto privi di significato, vani, appunto, quanto lo sono gli scopi di vita dei personaggi che le circondano: la dedizione di Dobbin, l’affetto di Rowdon, la rabbia senza perdono di Mr. Osborne e di Miss Crawley… tutti, in un modo o nell’altro sono persi in una vacua e pervicace ricerca di qualcosa di inutile. O nel mantenimento di essa.

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La fiera delle vanità e il dorato Regency

Siamo abituati a pensare al Regency come a un mondo dorato e immutabile, un mondo pulito e senza macchia, in cui le regole dominano una società ordinata, anche se a volte spietata.

Questa idea ci arriva da Jane Austen ma soprattutto dalla letteratura rosa che dai suoi romanzi ha preso origine, una letteratura che, per esigenze di copione, è stata epurata di brutture e dolori.

La Reggenza in Thackeray è ben diversa. L’occhio è quello non di un contemporaneo, ma della generazione successiva, quella su cui ricadono le colpe dei padri. Thackeray non è pietoso, né verso la storia né verso i suoi personaggi, su cui, voce fuori campo, affabile e colloquiale col lettore, cala insindacabili giudizi negativi.

Figlie del loro tempo, profondamente consce delle regole, Becky e Amelia vivono la prima per infrangere, la seconda per onorare. Due figure contrapposte che attirano fin dall’inizio l’attenzione del lettore.

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Un dipinto del Reggianini

Becky e Amelia

Ombra e Luce, Male e Bene, Inganno e fiducia: le due ragazze incarnano ciascuna una molteplicità di aspetti. Ma su entrambe Thackeray esprime giudizi negativi.

Becky è necessariamente un personaggio negativo, anche se talvolta ci riesce simpatica per gli sforzi che tanto la impegnano. Ma cade così in basso, si dimostra così priva di umanità da finire condannata anche dal lettore. Non ama suo marito, non ama suo figlio. Non ama nemmeno se stessa, ma solo ciò che non può avere. E non ci fa pena più di tanto quando a furia di inganni e maschere tocca il fondo, privata di tutto. Anzi, ci infastidisce che in qualche modo comunque se la cavi.

Amelia è il suo esatto opposto: vive per l’amore del fidanzato, del marito, del figlio, della memoria del marito, del ricordo del figlio… e solo ascrivere questo mi accorgo che Thackeray ha ragione: che melensaggine! Troppo amore, accompagnato dalla cecità nei confronti della realtà, da un’eccessiva coscienza del sacrificio fa di Amelia un personaggio negativo quanto Becky. E infatti gli opposti si attraggono e le due diventano il confine entro cui tutta la fiera si svolge, i capi estremi in cui questo mercato di anime e affetti si compie.

Non si salva nessuno. Stupidità, rancore, orgoglio, vanità, superbia, superficialità, lussuria… ogni vizio viene incarnato e ognuno porta diversamente alla rovina.

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Un’illustrazione d’epoca

La fiera delle vanità e la Storia

Il libro (e in questo anche il film!) è una fonte inesauribile di informazioni sul mondo Regency, dal modo di vivere della nobiltà, alla lotta di classe; alle abitudini alimentari (grazie a Jos che ci fornisce abbondante materiale), alla moda. I protagonisti si muovono in una Londra, in un’Inghilterra, in un’Europa reale, quella di cui Thackeray, pur non potendo avere memoria diretta deve conoscere comunque molto bene. Un passato prossimo per l’autore che non manca di apparirci come un quadro vivido e palpitante.

Nel film, apprezzabile per la diversità dal libro più che per la somiglianza, troviamo la stessa attenzione ad alcuni particolari storici.

Le acconciature maschili, per esempio, con quei tagli ispirati alle sculture romane e dai nomi altisonanti, alla Bruto, alla Cesare, alla Tito, gli affreschi delicati che Becky dipinge sui muri di casa, gli abiti che riprendono gradatamente colore dopo le pallide stoffe del primo stile impero…

Scopriamo Vauxhall, fiera nella fiera, coi suoi meandri capaci di rendere anche la timida Amelia imprudente con l’amato; Troviamo quel gusto per l’esotico delle Colonie Indiane, che Jos vorrebbe trasformare, invano, in fascino personale. Soprattutto, a differenza dalla Austen, Thackeray si sporca le mani: ci parla di guerra e di politica, ci porta sul campo, ci mette di fronte a malattie e lutti, col gusto tutto vittoriano della narrazione realista.

E qui, usciamo dal tempo. Thackeray è in ogni riga un uomo con una visione moderna, così moderna da provare più simpatia per Becky che per la dolce Amelia.

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Il mondo è cambiato: Jane avrebbe spezzato una lancia per chi soffre per amore, e non avrebbe mai fatto trionfare la sfrontata e spregiudicata Becky (anche se alla fine, Lucy Steele ha quello che vuole, e non è la sola delle arrampicatrici ad ottenere successo), almeno non in modo così eclatante.

Thackeray ci mostra come va il mondo, come funziona questa fiera fatta di spettacoli e brutture. Un mondo così reale da avvicinarsi, pur con immensa ironia, a quello di Hardy, la cui morale è sempre la stessa: anche se non è giusto, è così che va.

 

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