Fantasmi a Northanger Abbey

Fantasmi a Northanger Abbey

Antologia a cura di Antonia Romagnoli, illustrazioni di Solange Mela

Gloucestershire, 1813

Le feste natalizie trascorse in un’antica dimora, cupa, misteriosa, piena di ombre. Quale occasione migliore per sedersi attorno al fuoco e raccontare storie di fantasmi?
È quello che accade a Northanger Abbey, ora appartenente a Mr. E Mrs. Tilney, quando per mettere a tacere un ospite un poco spaventato da veri fantasmi, i due coniugi sfidano i loro amici a narrare ciascuno un racconto di spettri.
Le dodici notti di Natale diventano così altrettante novelle, declinate secondo l’indole e le esperienze dei personaggi narranti, mentre nell’abbazia inquietanti apparizioni muovono i loro passi all’insaputa di tutti. O quasi…

Il gruppo Regency & Victorian vi invita di nuovo a vivere un magico Natale in pieno clima austeniano, rendendo omaggio alla grande Autrice attraverso i suoi immortali personaggi.
Antologia curata e coordinata da Antonia Romagnoli.
Racconti di: Gladys Dei Melograni, Antonia Depalma, Patrizia Ferrando, Amalia Frontali, Elena Grespan, Cassandra Lloyd, Emanuela Locori, Arnaldo Lovecchio, Lisa Molaro, Pietro D’Onghia, Francesca Prandina, Antonia Romagnoli, Danila Sciacca, Federica Soprani, Susy Tomasiello, Matteo Zanini.

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Fantasmi a Northanger Abbey

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Prologo

Di Antonia Romagnoli

 

L’ultimo quarto di luna irrorava coi suoi raggi la campagna, spossata dalla calura estiva e ormai foriera delle prime avvisaglie d’autunno.

Allo stesso modo, la luce lunare disegnava il profilo biancheggiante dell’abbazia, da tempo immemorabile divenuta una dimora, che si ergeva fra i boschi e i campi coltivati, con le sue pietre squadrate e le finestre a ogiva che ancora raccontavano del passato.

Fra quelle mura possenti avevano pregato e lavorato i monaci molti secoli prima, poi la struttura aveva conosciuto la tristezza dell’abbandono, fino a divenire una casa, enorme, silenziosa, sorprendente, nella quale per generazioni si erano svolte vite umane, nel bene e nel male. L’abbazia era stata testimone di gioie e di dolori, imparziale giudice su tutto, muta madre, o matrigna, dei suoi abitanti.

Lì erano nati bimbi, morti anziani; il tempo col suo scorrere aveva inghiottito nelle sue onde ricordi, sentimenti, pensieri.

In certi momenti del giorno, in quelli che erano stati chiostri, si poteva quasi sentire ancora l’eco dei canti monacali, in altri si aveva l’impressione che quella poderosa struttura avesse il potere maligno di avvilire la vita dei presenti, di annullarla, di toglierle importanza.

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Northanger Abbey si sarebbe nutrita delle esistenze e sarebbe andata oltre, avrebbe fatto il suo pasto con le storie, i respiri dei suoi abitanti e avrebbe continuato a esistere lasciando solo alle ombre il compito di tenere memoria di ciò che era perduto.

La grandiosa dimora, dopo essere stata abbandonata dai monaci, era passata di proprietà alla famiglia Tilney, che pur non facendo parte della nobiltà, vantava antichi e rispettabilissimi natali, onorabilità accresciuta da numerose e brillanti carriere militari che avevano portato lustro al casato.

Gli attuali proprietari, pur appartenendo a una sì grandiosa stirpe, erano tuttavia molto diversi dai loro predecessori e si sarebbe potuto dire che l’abbazia si ergesse un poco indignata per la differenza a cui era costretta ad assistere. Tanti decenni sotto la ferrea mano del Generale Tilney avevano inciso un segno profondo, anche nella struttura: egli aveva lasciato andare in decadenza l’ala più antica, divenuta quasi una rovina, in linea con le mode che vedevano nell’aspetto diroccato di alcuni luoghi un fascino irresistibile, e aveva invece apportato migliorie a quella più moderna, nella quale, dopo la morte della moglie, aveva voluto dimorasse la famiglia.

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L’intera casa appariva, ora, divisa in due distinte parti. Una, elegante e curata, un’altra ridotta a poco più di un rudere, degno soggetto per un quadro di Caspar Friedrich: il pittoresco all’ennesima potenza, una rovina nella quale, fra massicci blocchi di marmo dagli intagli ancora riconoscibili, si potevano indovinare antichi giardini, peripati, orti, in contrasto stridente con la modernità della serra che sorgeva poco distante, il vero amore e l’unico serio interesse del Generale, nei suoi ultimi anni di vita.

Il Generale aveva trattato gli ortaggi con maggior affetto dei tre figli e, a detta sua, aveva tratto dai primi soddisfazioni maggiori. Il primogenito Frederick, che aveva seguito le orme del padre in ambito militare, aveva portato avanti di pari passo una carriera da libertino, dapprima lasciandosi alle spalle, con una sorta di bonario consenso paterno, una scia di cuori spezzati e fanciulle meno… adeguate a nozze favorevoli; in un secondo tempo, i suoi gusti in fatto di donne si erano fatti sempre meno esigenti, anche a causa delle finanze intaccate da troppe perdite al gioco, fino a che non era arrivato a cadere in una spirale da cui non era mai riuscito a riemergere. Aveva contratto la sifilide, che lo aveva ridotto nell’ombra di se stesso in poco tempo e che lo aveva condotto, con grande dolore di tutti, a compiere un gesto estremo.

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Il Generale non era sopravvissuto molto al dolore per la perdita dell’unico figlio che riteneva degno di portare il suo nome, e la sua salute, minata dalla gotta e da altri acciacchi, era peggiorata in breve tempo.

Eleanor, la figlia maggiore, insieme alla cognata Catherine, si era adoperata in tutti i modi per alleviare le sofferenze del vecchio, ma a causa del cattivo carattere di lui, inasprito dalle sofferenze, le due giovani donne erano state costrette ad abbandonare la casa, da cui, senza troppi complimenti, il Generale le aveva invitate ad andarsene.

Northanger Abbey era divenuta, sotto il dominio di quell’uomo, cupa e arcigna come una roccaforte e, col peggiorare delle condizioni di lui, sembrava che anche l’aria nelle stanze si fosse fatta greve, la luce più opaca, le ombre più minacciose.

Il giorno della sua morte, la vecchia governante asserì di aver visto una nube oscura sollevarsi dalle coltri in cui giaceva il corpo esanime e lasciare la stanza con un oscuro sibilo, simile a un lamento.

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Padre e figlio maggiore furono sepolti insieme, accanto alla rispettiva sposa e madre, e lì si sperava sarebbero rimasti.

La casa aveva un legato che la vincolava al più prossimo erede maschio, e rese inaspettatamente ricco il fratello minore, Henry Tilney.

Il Generale lo aveva voluto pastore, ma aveva riposto in lui, per un certo tempo, l’ambizione di un matrimonio adeguato o favorevole al casato. Henry aveva assecondato tutte le richieste del padre per amor di quieto vivere, fino a che sulla sua strada non era giunta Catherine, che con le sue fantasticherie e la sua ingenuità lo aveva colpito al cuore con una freccia invisibile.

Le cose si erano complicate quando la dote di lei si era rivelata meno cospicua di quanto previsto dal Generale, il quale si era opposto alle nozze e aveva allontanato il figlio e la nuora.

Henry si era quindi adeguato a svolgere il suo apostolato in una piccola parrocchia di campagna, vivendo insieme alla moglie e ai due figli un’esistenza umile e serena, lontana dalla tirannia paterna.

Morto il Generale, i signori Tilney erano tornati a vivere all’Abbazia, per non lasciarla cadere nell’abbandono.

Il passato era, in ogni caso, passato, e il presente della nostra storia era un panorama spettrale e affascinante insieme, sotto una luna che dipingeva con dita d’argento le linee ieratiche dell’abbazia.

All’interno, però, nei saloni dai pregiati marmi, in particolare nell’ingresso su cui si affacciava la scala principale, dove campeggiava un camino così grande da poter essere abitato a sua volta, la situazione era assai meno ieratica.

Mentre Mrs. Tilney tentava di cucire davanti al fuoco, i suoi pargoli schiamazzavano intorno a lei dandosele di santa ragione con due spadette di legno, urlando minacce improbabili e correndo da lei a turno, per lamentarsi di un colpo ricevuto.

Se ciò non fosse stato sufficiente, alle urla dei bambini faceva eco l’abbaiare dei due terrier, più che entusiasti di partecipare alla festa.

Catherine, all’ennesimo tentativo di infilare l’ago dopo uno strattone da parte del figlio più piccolo, decise di rinunciare, anche perché il tonfo sordo del grande portone di legno le annunciò il ritorno del marito, che pochi attimi dopo apparve dall’oscurità del colonnato, liberandola tutt’un tratto dall’assedio di bimbi e cani. Mr. Tilney fu preso d’assalto al suo posto e la signora non poté che sorridere sardonica, mascherando l’espressione il più possibile.

A sua volta si alzò per accogliere il consorte, appena rientrato da una serie di visite ai poveri. Nonostante avesse ereditato una tenuta considerevole, infatti, Mr. Tilney non aveva voluto dismettere del tutto le attività di apostolato, pur sapendo che il carico di impegni prima o poi lo avrebbe costretto a rinunciare.

Per un tacito accordo, la coppia aveva scelto di utilizzare solo alcune stanze della casa, diverse da quelle preferite dal Generale. La grande sala da pranzo, per esempio, era stata chiusa, per essere sostituita da una saletta da tè più raccolta, nella quale le voci dei bambini non apparissero tanto spettrali.

Avevano valutato a lungo se occupare o meno quella dimora, e avevano scelto infine di trasferirsi, dispiaciuti dall’idea che una casa così antica venisse abbandonata. Il piccolo Charles e il fratellino Thomas si erano subito considerati i principi del castello e avevano avuto assai meno problemi dei genitori a vivere nell’abbazia.

Mr. Tilney dopo aver mandato i figli a compiere una missione da cavalieri, al solo scopo di liberarsi di loro e dei cani, sventolò davanti al naso della moglie una lettera aperta.

Festa di compleanno dipinta da Frith, avictorian.com

«Indovina un po’» disse, divertito.

«Hai ereditato un’altra abbazia?» domandò Catherine, con le mani sui fianchi.

«No, mia cara. Ma ci sei andata vicino. Eleanor e suo marito saranno da noi per Natale».

Mrs. Tilney era felice di rivedere la cognata, ma le parve un po’ strano un annuncio del genere a così tante settimane dalle festività. L’autunno era appena iniziato e le feste erano ancora lontane. Anche la frase del marito, d’un tratto, le parve sospetta, tanto che subito tese una mano per strappargli il foglio, ma la prontezza di lui fu maggiore e la lettera le sfuggì.

«Andiamo!» lo rimproverò, ridendo.

«I tuoi fantasmi avranno molto da fare: avvertili!» replicò lui, sibillino.

Catherine non sapeva se essere più confusa o arrabbiata, per cui optò per una via di mezzo e si erse in tutta la sua scarsissima maestosità da matrona.

«Mr. Tilney! Spiegati subito!» lo apostrofò, un poco risentita, a dire il vero, per le bonarie canzonature di lui riguardo ai suoi timori degli spettri. Troppe letture, in gioventù, avevano esasperato la sua suscettibilità e, anche nella maturità, Catherine mostrava una propensione alle fantasie, soprattutto quando riguardavano fantasmi, intrighi e mostri. L’abbazia, fin da quando vi aveva messo piede per la prima volta, aveva sollecitato in lei fantasticherie d’ogni genere e, nonostante ormai fosse divenuta la sua casa, ancora non ne era del tutto immune.

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«Ebbene» si arrese Henry, «ho riflettuto a lungo su questa abitazione. Mi sembra un peccato tenerla chiusa come stiamo facendo».

«Non ne abbiamo mai parlato prima» rispose lei, sulla difensiva. Mr. Tilney prese il posto della moglie sulla poltrona accanto al fuoco e allungò le gambe, prendendo fastidiosamente tempo.

«No, ma ne stiamo parlando adesso. Il fatto che mio padre abbia trasformato Northanger in un lugubre palazzo non significa che noi dobbiamo fare altrettanto. Credo… temo… che stiamo anche facendo di peggio».

«Vivendoci come una famiglia normale? Mio caro, non ti capisco: fino a ieri rimpiangevi anche tu la nostra casetta e la parrocchia. Che cosa è cambiato?».

«Eleanor mi ha ricordato i tempi in cui mia madre era viva e aveva ancora qualche ascendente sul Generale. Vuoi davvero che siano i fantasmi più cupi a vincere? E se invece in questa casa riportassimo la vita?» disse Henry, accalorato. «Catherine, stiamo vivendo qui come due stranieri, due ospiti sgraditi. È nostra, dopotutto».

Catherine soppesò a lungo le parole di lui e si trovò a essere d’accordo. Nell’ala antica non entravano mai, perché lì c’erano le stanze della precedente Mrs. Tilney, con tutti i dolorosi ricordi di cui erano gravide; nei saloni principali sembrava che ancora passeggiasse il Generale, arrabbiato per qualche ritardo o per altri futili motivi; nelle stanze padronali sembrava ancora di sentire la risata sguaiata di Frederick, ubriaco.

I veri spettri erano dentro di loro, e in tutto quel tempo non avevano fatto altro che nutrirli con le proprie paure, la propria ritrosia.

«Che cosa vorresti fare?» domandò.

«Non molto, per adesso. La stagione della caccia potrebbe fornirci una buona scusa per invitare qualcuno e cominciare a prendere possesso della dimora. Tuo fratello James, per esempio. So quanto ti manca. Vecchi amici, tutti quelli che vuoi».

Catherine si illuminò per un attimo. «Sarebbe… ma possiamo permettercelo?» concluse titubante.

«Possiamo eccome, Mrs. Tilney. Chiudi gli occhi, pensa a quello che desideri e lo avrai!».

 

 

Il generale Tilney passeggiava avanti e indietro nella galleria, di fronte all’ingresso del salone grande. La pendola scoccò tre funerei rintocchi nell’oscurità. I piedi, calzati negli stivali, sfioravano appena il tappeto, o forse nemmeno lo toccavano.

«Detesto il ritardo!» ululò, dal profondo della gola, in un rantolo mortifero.

Una flebile luce, dal fondo del corridoio, si avvicinò fluttuando nell’aria. Quando fu vicina all’ombra dello spettro, le delicate sembianze femminili di Mrs. Tilney presero forma dalla nebbia, mentre al suolo un terzo vapore, denso, oscuro, quasi tangibile, scivolava lento verso la stessa porta presso cui sostavano gli altri due.

«Detesto il ritardo!» Il grido del primo fantasma riecheggiò, questa volta quasi lamentoso, nell’aria ferma.

Le tre ombre si mossero unanimi verso l’uscio di legno e vi passarono attraverso come se non ci fosse alcun ostacolo, raggiungendo la sala da pranzo e lì stazionarono, borbottando e sussurrando fra loro, fino a che l’orologio di nuovo non diede il rintocco. Allora, e solo allora, svanirono, e fu come se di nuovo il tempo potesse scorrere, l’aria muoversi, il vento soffiare, la vita proseguire.

Ancora per una notte, ancora per un nuovo giorno.

 

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Pioveva da diversi giorni, quasi senza sosta, e nubi plumbee gravavano ancora sulla campagna, preannunciando altro maltempo.

Catherine sedeva al piccolo tavolino che aveva fatto spostare accanto alla finestra del salotto, per poter sfruttare il più possibile la scarsa luce diurna; doveva sbrigare diversa corrispondenza e non voleva lasciare gli ospiti da soli, per cui aveva optato per quella soluzione che univa l’utile al dilettevole.

In quelle settimane Northanger Abbey aveva cambiato radicalmente aspetto e si era trasformata in un’accogliente casa padronale, nella quale regnavano pulizia, ordine e ospitalità.

La sala grande era stata arieggiata e ripulita; le numerose camere rimaste vuote avevano visto di nuovo stracci, carbone, biancheria pulita ed erano tornate a essere abitabili.

I salotti principali messi in ordine e addobbati per l’occasione coi ninnoli migliori della casa; la grande cucina, che per i soli quattro padroni aveva avuto ben poco da fare, era stata rimessa in piena attività dalla cuoca e da tre aiutanti, necessari per l’organizzazione dei pasti per gli ospiti.

Nonostante il cattivo tempo, che rendeva l’abbazia più misteriosa del solito, la gran quantità di camini accesi, con l’odore di resina, e il profumo dei fiori della serra, avevano trasformato quella che aveva somigliato all’ambientazione di un romanzo gotico in una dimora quasi regale.

Il quasi riguardava le rovine di una buona parte della struttura e gli inspiegabili rumori che disturbavano la notte, ma agli ospiti, tutto sommato, piacevano così.

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Eleanor ci era abituata, anzi, non poteva che complimentarsi con i Tilney per le migliorie apportate; suo marito, il Visconte di *** aveva occhi solo per la moglie e si sarebbe trovato bene con lei anche in una capanna di fango.

James Morland era l’eroe dei nipotini: il poveretto veniva letteralmente sequestrato dai due monelli che non perdevano occasione per trascinarlo nelle stalle ad accarezzare il suo magnifico stallone grigio e farsi raccontare di gare e prodezze. Ancora scapolo, il giovane avvocato non aveva più cercato una compagna da quando le sue speranze di felicità con Miss Thorpe erano finite in una cocente delusione; da quando si era affermato nel lavoro e aveva preso dimora in Mayfair, si era inoltre preso in carico due dei fratelli minori, Sally e Richard, che lo avevano accompagnato anche in quell’occasione per rivedere la sorella Catherine.

Poiché l’invito dei Tilney era principalmente indirizzato agli amanti della caccia, che avrebbero potuto approfittare di una tenuta in cui da molto tempo nessuno aveva ucciso cacciagione, fra gli ospiti figuravano anche due vecchie conoscenze di Henry, Mr. Northon, un singolare personaggio che si definiva “autore e pensatore” e che aveva inspiegabilmente trascinato con sé tal Mr. Annesley, e Sir Buchan, vicino di casa dei Tilney che non perdeva occasione di abbattere qualche uccello.

La raffazzonata compagnia era rallegrata dalla presenza di due talentuose sorelle nubili, amiche di Eleanor, cacciatrici indomite, propense in particolare all’arte venatoria matrimoniale.

Queste ultime, al pari di Mr. Annesley, si erano autoinvitate, supplicando la tenera Eleanor di aiutarle nella loro impresa: le due non perdevano occasione di cercar marito, soprattutto da quando il padre si era reso conto che le Stagioni si stavano susseguendo senza successo e le figlie cominciavano a essere una spesa a fondo perduto.

La prima grande apertura di Northanger Abbey, per quanto fosse rivolta a una selezionata comitiva, rischiava tuttavia di diventare un insuccesso. L’umidità faceva afflosciare i riccioli; l’impossibilità di uscire all’aperto rendeva rumorosi i bimbi particolarmente attivi; i gentiluomini fremevano in attesa di imbracciare i fucili, le signore fremevano in attesa di liberarsi per qualche ora di bambini e gentiluomini seccanti.

Poi arrivò il freddo. Pungente.

L’abbazia fu ulteriormente riscaldata a furia di ciocchi e carbone, ma il nervosismo cresceva in modo tangibile.

I Tilney avevano proposto agli amici di fermarsi fino al termine delle feste natalizie, e tutti avevano accettato, salvo poi scoprire che le giornate con quel clima inopportuno si facevano orribilmente lunghe e noiose.

 

Winter Day at Finzean
Winter Day at Finzean

 

«Parola mia, questo castello è pieno di fantasmi!» esclamò sir Buchan.

Mr. Tilney lo fulminò con un’occhiataccia. Mancavano pochi giorni a Natale e il simpatico vicino si era praticamente installato a casa loro, facendo sporadiche spedizioni nella sua tenuta per controllare i propri affari da cui tornava poi immancabilmente.

L’invito alla battuta di caccia era diventato un soggiorno in pianta stabile a Northanger ed Henry sospettava che avesse colto l’occasione per risparmiare sul riscaldamento di casa sua senza correre il rischio di trascurare i propri interessi. Fra tutti gli ospiti era il più puntiglioso e il più esigente e non lesinava critiche a tutto e a tutti. Le signorine Phipps avevano ben presto fatto le dovute valutazioni e rinunciato a contendersi lo scapolo, certe di guadagnarci di più a stargli ben distanti, e anche gli altri ospiti manifestavano una certa tendenza a ricordarsi impegni urgenti quando si trovavano a portata sua e dei suoi commenti, tranne Mr. Annesley che sembrava divertirsi un mondo a provocare le reazioni del baronetto e a canzonarlo fino a che quest’ultimo non cadeva in imbarazzanti stati confusionali.

Il commento sui fantasmi, in quel caso, era caduto come un frutto maturo dalla pianta durante la colazione, di fronte a tutte le signore che avevano subito alzato gli occhi su di lui, manifestando differenti gradi di preoccupazione.

«Spifferi e legni vecchi» replicò Mr. Tilney, fingendo una tranquillità che era ben lungi dal provare, visto che conosceva bene la reattività della moglie sull’argomento.

«Baggianate e panzane, caro mio! So quello che ho visto e sono pronto a giurarlo sulla tomba di mio padre!»

«E che cosa avreste visto, signore, che sia sfuggito sia a me che a mio fratello in tanti anni trascorsi serenamente fra queste mura?» intervenne conciliante Eleanor.

Buchan posò la tazzina di delicatissima porcellana cinese con poca grazia sul piattino, facendola tintinnare e macchiando la tovaglia col tè che ancora vi ondeggiava dentro.

«Vi sfido, Lady Eleanor, a ripetere che l’abbazia non è infestata, guardandomi negli occhi. Maledizione!» eruppe lui, e le signorine Phipps, all’ultima esclamazione, sobbalzarono all’unisono con la tazzina da tè.

L’interpellata sorrise serafica e non abbassò affatto lo sguardo. «Sono più che sicura che questa casa non ha nulla di soprannaturale. Così come sono sicura che tante storie di spettri derivino solo da spiriti umani, sovraeccitati e troppo inclini alle fantasie!».

Il baronetto avvampò e si preparò a una risposta incandescente, ma Catherine intervenne con prontezza. «Oh, io adoro le storie di fantasmi!» esordì con un’ingenuità tale che Henry sospettò non avesse colto il senso generale della conversazione.

«E quello che ho visto…» riprese sir Buchan.

«Vi prego, vi prego, non ditemelo!» lo interruppe subito Mrs. Tilney. «Ho un’idea magnifica. Qui intorno al tavolo siamo in dodici, come le notti di Natale».

Tutti si guardarono intorno, più con sospetto che con amicizia.

«Ho sempre amato i racconti intorno al fuoco nelle notti invernali, soprattutto quelli spaventosi. Riuscireste a pensare a una storia ciascuno? Una terrificante, avvincente storia di spettri?».

Richard Morland si mise a ridere. «Non sei per nulla cambiata, Catie!».

La sorella gli sorrise e Henry, intercettandone lo sguardo, ammise con se stesso che la donna che aveva sposato non era affatto quella piccola ingenua che aveva conosciuto, ed era assai più astuta di quanto avesse mai creduto.

«Allora, nessuno raccoglie la mia sfida? Abbiamo ancora qualche giorno per pensare alle nostre narrazioni. Suvvia… non siate… codardi!».

«Noi ci stiamo!» risposero con entusiasmo i più giovani dei Morland, Sally e Richard. «Abbiamo letto proprio pochi giorni fa un romanzo che ci ispirerà». Catherine annuì, ben sapendo che i due avevano al pari suo una grande passione per il romanzo gotico e avevano fatto man bassa nella biblioteca di casa per leggere quelle opere che a casa di James erano proibite.

«Non sarà facile, ma perché no?» disse il Visconte un poco indifferente alla questione.

«Sì, anch’io credo di poter attingere ad alcune vecchie storie che ho sentito» aggiunse Mr. Northon, che non si tirava mai indietro quando si trattava di mettere in mostra la propria cultura in qualunque campo, «E anche Ambrose, Mr. Annesley, accetterà molto volentieri».

Ambrose guardò l’amico come se al suo posto si fosse materializzato uno scimpanzé. «Un increscioso errore di persona, temo».

«No, caro. Avrai anche tu la tua notte davanti al fuoco».

Ambrose si lasciò sfuggire un lampo malandrino dallo sguardo e Mr. Northon deglutì a vuoto, improvvisamente imbarazzato. «Come diceva il visconte… dopotutto, perché no?» replicò infine.

«Magnifico!» gioì Catherine, battendo le mani. Guardò Eleanor, che alzò le spalle.

«Non posso che accettare anch’io» si arrese sorridendo. «E voi, Sir Buchan?».

«Sir Buchan ci racconterà quello che ha visto!» si intromise Henry. L’obiettivo suo e della moglie era palese, ormai, per tutti: impedire a quell’odioso di terrorizzare a morte col suo presunto spettro tutta la comitiva e costruire una cattiva fama sulla loro abbazia. Ma così, in mezzo a tante altre storie di spettri, il mordente del suo “avvistamento” si sarebbe perso.

«Io» proseguì Mr. Tilney, «vi prometto di attingere a qualche truculenta leggenda di famiglia. Vi stupirò».

«Anche perché a memoria mia non sei mai stato un gran narratore» scherzò Eleanor, alleggerendo il clima di quella colazione così tesa.

A quel punto, sir Buchan dovette accettare.

Tutti guardarono con aspettativa le due Phipps. Patricia, detta Pitty, si consultò con la sorella Theresa. «Saremo ben felici di portare il nostro contributo!» rispose per entrambe. «Ma chi comincerà? E come ci divideremo le varie notti?»

«Un sorteggio» rispose prontamente Catherine. «Nessun favoritismo, nessuna precedenza: sceglierà per noi la sorte».

«O il destino» replicò, enigmatico, Ambrose.

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